Mi chiamo Pietro.
Sono cieco.
La mia è una storia forse banale: incidente automobilistico…cecità.
Ho trentadue anni, la mia vita, da quattro anni, è completamente cambiata.
Adesso, nelle attuali condizioni, io… “vedo molto di più”.
Subito dopo l’incidente, la disperazione si era impossessata di me. Gli specialisti che mi visitarono, furono davvero molti, affermavano che non vi erano lesioni al nervo ottico, la mia cecità era soprattutto psicologica, col tempo avrei rivisto la luce del sole.
Sapete cosa significa il buio sempre presente, avvolgente, totalizzante?
Mi sentivo paralizzato, non riuscivo più a connettere, a orientarmi. Tutto ciò che prima era assolutamente normale, facile, ovvio, dopo…. era un’impresa titanica.
Abituarmi al buio, a essere sempre accompagnato, anche nella quotidianità, mi segnava profondamente.
I primi tempi, mia madre, mi assisteva in tutto per tutto, un incubo. Addirittura dubitavo che mi lasciassero da solo almeno la notte.
In casa non riuscivo a muovermi senza sbattere contro un mobile o una parete.
Caparbiamente rifiutavo il bastone, non mi volevo rassegnare alla mia menomazione.
L’unica cosa che accettai furono gli occhiali scuri.
Questo, dopo aver chiesto a mia madre com’erano i miei occhi, l’avevo pregata di essere sincera.
“Figlio mio, ricordo che disse, sono sempre gli stessi, solo, non seguono nulla, girano a vuoto, non focalizzano.”
Alle sue parole presi coscienza e, con difficoltà, cercai di immaginare cosa gli altri potevano vedere in me.
Gli amici, all’inizio, mi furono accanto, nonostante io fossi sempre scorbutico e arrabbiato col mondo.
Col tempo, naturalmente, le visite si diradarono, grazie al mio atteggiamento.
Un giorno… il cambiamento.
Non so cosa fu che mi fece comprendere il male che facevo a me stesso e agli altri o, forse. sì, lo so.
La mia ragazza mi aveva lasciato, le parole che pronunciò, mi fecero capire tante cose “ Pietro, io me ne vado, non perché sei cieco."
Tu non hai più amore, solo odio per tutti. Ritieni gli altri responsabili del tuo stato! "E’ vero, non vedi più ma, ti assicuro, è peggiore la cecità del tuo cuore!”
Così dicendo mi diede una leggera carezza e ... andò via.
Rimasi davvero solo, mi sentii un naufrago alla deriva, senza la possibilità di scorgere la salvezza.
“Mi rimboccai le maniche”, come si suol dire, iniziai a utilizzare gli altri sensi.
L’odorato mi accorsi che si era affinato, avevo sviluppato la capacità di selezionare e individuare gli odori.
Il lieve profumo di violetta annunciava mia madre, l’odore del dopobarba al mentolo, mio padre era nella stanza.
Era come se giocassi a moscacieca ogni profumo, ogni odore, un volto.
Presi gusto a questo mio modo di “riconoscere” gli altri.
Se mi trovavo per strada con mio fratello, prima ancora che lui se ne accorgesse, io discernevo, attraverso l’odorato, i conoscenti.
Il mio naso era come quello di un segugio, si aguzzava sempre più e con esso, la mia possibilità di indipendenza.
Mi resi conto che anche l’udito era migliorato sensibilmente, io sentivo, percepivo, avvertivo subito il più lieve rumore. Era come se avessi un computer nel cervello, tutto era immagazzinato, compreso, catalogato. Mi rendeva sempre più consapevole delle mie possibilità di autonomia.
La mia più grande scoperta fu però il tatto. Toccare mi permetteva di conoscere realmente ciò che mi stava dinanzi.
Fu per me una rivelazione sconvolgente.
A due anni di distanza dal mio incidente, diventai zio di una bimba, Sofia.
La conobbi con il tocco delle mie mani. Ricordo che mio fratello me la mise in braccio e poi, con dolcezza mista al pianto, mi disse “Pietro, toccale il volto, impara a conoscerla”.
Così feci. Leggermente, cautamente, le toccai il viso morbido, con le dita seguii il suo profilo, col pollice e l’indice imprigionai i capelli, sottili e soffici, con i polpastrelli delle dita seguii la rotondità delle guance. Aspirai il suo profumo di borotalco e di “nuovo”, feci mio il suo debole pianto.
….e la vidi. Sì, la “vidi” con gli occhi del cuore e della mente. Mi commossi, chiamai mio fratello e sussurrando gli dissi “E’ bellissima, ti assomiglia molto, ha i tuoi lineamenti, ma i capelli sono della sua mamma.” Ed era vero, almeno così mi confermò Giulio.
Le mie mani ravvisavano, il mio naso mi aiutava a riconoscere, gli orecchi mi orientavano. Avevo scoperto di poter essere normale, nella mia attuale vita.
Presi una decisione salomonica, volevo vivere da solo. In casa i genitori mi dissero che ero un pazzo, che non potevo fare una cosa del genere. Mia madre pianse, si disperò, disse che non sarebbe stata tranquilla sapendomi solo.
Giulio e sua moglie mi spalleggiarono, avevano compreso il mio profondo bisogno di indipendenza. Dovevo, volevo saggiare le mie reali possibilità, riconquistare la mia autonomia, solo così mi sarei sentito vero, autentico, uomo.
Con l’aiuto di un mio amico trovai un appartamentino, nella stessa via della casa paterna, era importante, conoscevo la zona.
Piccolo, solo due stanze e i servizi. Lo arredai nel modo più spartano possibile, niente mobili d'ostacolo. La disposizione la scelsi da solo, dovevo potermi muovere con sicurezza
Poi, il dono…un cane pastore che mi riempì la vita.
Jack, così lo chiamai, era i miei occhi. Era la presenza viva e costante accanto a me. Mai ingombrante, sempre utile, sapeva quando doveva aiutarmi e quando lasciarmi sperimentare in autosufficienza. Mi spronava a uscire, a saggiare le “competenze” acquisite sul campo.
Tornai a lavorare presso il coll center. Jack mi accompagnava e mi riportava con sicurezza a casa.
Ripresi a uscire con gli amici e a sorridere. Il gusto per la vita mi stava riconquistando.
In questa nuova dimensione il sesto senso si era affinato. Avvertivo a pelle i pericoli.
Era come se respirassi nell’aria l’odore del rischio.
Mi resi conto di quanto era superficiale la mia vita precedente.
Era incredibile l’attenzione che ora, in questa mia condizione, prestavo alla parola, al tono della voce, alle pause, al respiro. Le parole mi venivano incontro, io le “vedevo” arrivare, erano consistenti non aeree, avevano un corpo, un’anima, un senso, un’azione.
Le mie mani ora, erano preziose. Le dita affusolate accarezzavano il bello, respingevano il male, sentivano, percepivano, erano dotate di vita propria. Mi ero accorto che i colori emanavano calore:. il rosso era caldo, il bianco freddo, il giallo mi restituiva passione, il verde serenità sotto i polpastrelli.
Prima dell’incidente non avevo mai assaporato la bellezza della natura, ero troppo distratto dalla vista. Ora no, tutto era pura percezione, il calore del sole sulla pelle, la pioggia sul viso, l’odore dell’erba bagnata, il frinire della cicala. Ciò che tutto era scontato e ignorato, ora, faceva parte della poesia della mia vita. Amare la vita divenne la colonna sonora della mia esistenza.
Adoravo anche il buon cibo, le mie papille gustative erano quasi elementi pensanti. Un buon pranzo mi predisponeva al meglio, per la giornata che doveva ancora dispiegarsi del tutto La dolcezza di un pasticcino mi conquistava letteralmente.
I sensi erano la mia guida.
Mia madre, un giorno, sorpresa dal mio evidente cambiamento, mi disse:”Non sei mai stato così sereno. Prima, eri sempre insoddisfatto. Tutto era sempre troppo poco, spesso mettevi a repentaglio la tua vita per sentirti vivo. Invidio la tua serena gioia, ma sono felice per te. Qual è il tuo segreto, figlio mio?”
“Mamma io vedo con l’anima. Colgo la bellezza attraverso i suoni, il tatto, l’odorato, il gusto. Tutto mi è nuovo e tutto poi diventa mio, in un universo che mi permette di vivere. Sai mi sto appropriando dell’ incanto del mondo.”
Lei mi abbracciò e poi se ne andò con passo lieve, non più pesante come un tempo.
Mi mancava solo l’amore.
E…anch’io amai. Con tutto me stesso, consapevole amore, grande sentimento, estasi totalizzante, perdurante. Finalmente amavo davvero, non perché conquistato dalla bellezza esteriore ma, da qualcosa di più forte, più duraturo, la consapevolezza di aver trovato l’altra metà del cielo.
L’incontro in fondo, fu banale. Mi ero recato nella profumeria in cui spesso acquistavo. In quel negozio le narici fremevano, tra quei profumi sembravano delirare. Catalogavano, riconoscevano, sceglievano. La commessa, mia amica, proprio quel giorno mi aveva invitato a “assaporare” una nuova fragranza per uomo.
Quell’essenza mi aveva conquistato, sapeva di muschio e di sandalo, con un leggero retrogusto di malva. Stavo effettuando l’acquisto quando la sentii….
Passi leggeri, corti, quasi sussurrati, un fruscio di gonna di seta, la voce morbida con un’erre alla francese. Il suo odore era appena percepibile ma persistente: gelsomino e mughetto. Sapeva di primavera.
“Ciao, disse alla commessa, mi dai il solito, per favore?”
Era quindi un cliente abituale, dovevo assolutamente chiedere informazioni a Giada, la mia amica.
La sentii annusare, scegliere la confezione, pagare e andar via.
Assurdo si portò via anche il mio “cuore”.
“Giada dimmi chi è, come si chiama, mi piace!”
“Amico hai fiuto!” disse ridendo, “è Lucia, non abita lontano da qui. Se vuoi, appena ne avremo l’occasione, te la presenterò”
“Parlami di lei, ti prego!”
E Giada mi accontentò.
Era segretaria presso uno studio medico, aveva trent’anni. Non era sposata, viveva nel mio stesso quartiere. Non mi disse com’era fisicamente, non lo avevo voluto, volevo conoscerla a modo mio, con i miei sensi, con la mia percezione. Non volevo che a guastare questo mio desiderio d’amore , fosse un apprezzamento sbagliato.
Iniziai a sognarla, agognarla. Anche Jack si accorse che ero nervoso, frustrato, spesso si avvicinava e mi leccava la mano, come per dire “Coraggio, vedrai che riuscirai a conoscerla”.
L’incontro l’organizzò, a mia insaputa, Giada.
“Pietro vieni in negozio domani pomeriggio, ci sarà una presentazione di profumi per uomo e per donna. Non mancare ci conto. Ti aspetto alle 18,30.”
Ci andai, era passato un mese da quando mi ero inutilmente infatuato di Lucia,
Entrato nel negozio avvertii subito la sua presenza, il suo profumo era come marchiato a fuoco nella mia memoria.
Jack mi condusse vicino a lei, mi fece sedere proprio accanto
Mentre Giada parlava e presentava una serie di profumi, distribuendo tester,fu proprio Lucia a presentarsi.
Iniziò così tra effluvi e marche di costose essenze.
Cominciammo a frequentarci e tra un caffè, una passeggiata e una cena, anche lei si innamorò.
Il momento più bello fu quando le chiesi con semplicità.“Posso toccare il tuo volto?”
Sentii che Lucia si avvicinava , prendeva la mia mano e l’accostava al suo viso.
Piano, con leggerezza, le mie dita le accarezzarono la fronte licia,gli occhi grandi, il naso sottile, la bocca carnosa. Era una rivelazione continua, era il mio viaggio di scoperta. Mi sentii quasi Magellano nelle sue rotte avventurose. Scoprivo le fattezze della donna di cui ero innamorato.
La pelle era delicata, compatta, non era truccata,perché sentivo la lievità della pelle, non vi erano false barriere.
Indugiai sulle labbra. Le accarezzai voluttuosamente,con una sorta di piacere nascente,erano così sensuali!
Aspirai voluttuosamente il suo profumo,con la bocca assaggiai la sua pelle, il tatto accarezzava la pelle, l’udito si appropriava delle basse tonalità della sua voce.
Iniziò così e…stiamo ancora insieme
Non ho recuperato la vista, forse… un giorno… ma, sono felice.
Sono grato a questa mia vita che, prima mi ha tolto un grande bene ma poi, mi ha donato la forza, la caparbia, il coraggio di riappropriarmi completamente della mia esistenza.
Si, sono un uomo che pienamente ama e vive! .