Non basta un giorno di memoria per capire,
non basta leggere un libro per comprendere,
non basta un film per cogliere l'orrore.
Avresti dovuto vedere gli occhi sbarrati dal dolore,
la paura che viveva come compagna nell'inferno,
il senso d' impotenza che i nostri corpi mostravano,
le braccia tese di bimbi che imploravano pietà.
Avresti dovuto toccare con mano
la pelle lacerata dal gelo,
le ossa che si rivelavano sotto la pelle nuda,
le lacrime solidificate sui volti scarni,
i piedi nudi piagati,
la fame rivelata nella sua spaventosa interezza.
Avresti dovuto sentire
le urla di uomini condannati dal male altrui,
i singhiozzi di donne e di bambine violate da belve camuffate da esseri,
il pianto delle madri separate dai figli,
i colpi di fucili che ponevano fine alla vita di innocenti.
Avresti dovuto odorare
la morte che indecorosa regnava su tutto,
il fumo che saliva con sbuffi lievi verso il cielo
pur essendo grave di anime,
il puzzo di chi restava tra cumuli d'indifferenza.
Avresti dovuto...
e forse oggi si parlerebbe solo di giustizia e umanità.
Nuccia
mercoledì 27 gennaio 2016
mercoledì 20 gennaio 2016
STORIA DÌ UNA TAZZINA DÌ CAFFE’ CHE SALVO’ PASQUALE DALLA PRIGIONE
Aveva
bisogno di un buon caffè, gli serviva per schiarirsi le idee. Con questo
impellente
pensiero
si recò a passo veloce al “Bar dello sport”, lì il caffè era dei migliori.
L'aroma si
spandeva
fin sul marciapiede, le miscele utilizzate erano quelle “rabbiche”. Il vecchio
barman
Don
Fefè, lo conosceva da sempre, non aveva bisogno neppure di chiedere e il
cameriere
glielo
serviva al solito tavolino d'angolo da dove avrebbe potuto ammirare,
indisturbato, la
pettoruta
cassiera. Lo sapeva, la maledetta, che lui pazziava per quelle “minne”, lei
faceva
finta
di niente ma i golfini scollati si sprecavano. “'Giorno Pasquale!” “Don Fefè!”
toccandosi
con
le dita della mano destra un immaginario cappello. Si sedette e subito arrivò
l'amato
caffè.
Il solo profumo lo ritemprava e le idee andavano sbrogliandosi. Mise un solo
cucchiaino
di zucchero, senza girarlo però, gli piaceva gustarlo dopo aver bevuto tutta la
bevanda.
Poi, alla fine, avrebbe addolcito il palato. Durante la degustazione non
toglieva gli
occhi
di dosso alla cassiera. Pasquale non le aveva mai parlato; come lui amava dire:
“Abbastano
gli sguardi!”. Quel giorno però era preoccupato, da qualche tempo aveva
programmato,
al Cimitero monumentale di Scicato un colpo sinsazziunale, lo aveva chiamato
“piano
A”. Aveva previsto tutto: amici fidati, mezzi, orari e refurtiva con
conseguente
rivendita!
Il colpo era tutto nella sua testa. Qualche dubbio ancora sui complici, ma la
tazzina
di
caffè l’avrebbe risolto. Accompagnando la madre vedova al cimitero, in pratica
ogni santo
sabato,
aveva notato che c'era materiale da rubare: bronzo, lampadine, fili di rame,
fiori,
anche
quelli finti, in sostanza eterni! Il colpo sarebbe avvenuto all'imbrunire. Nel
muro di
cinta
del cimitero vi era una breccia, vi sarebbero penetrati ed, eludendo il
custode, si
sarebbero
divisi il cimitero in quattro zone in modo da operare in modo oculato e
matematico.
Tutto
il materiale lo avrebbero trasportato su un furgone “preso a prestito” e poi,
con calma,
avrebbero
iniziato la vendita. Sì, il caffè lo aveva rincuorato, uno ultimo sguardo
goloso al
davanzale
della cassiera e poi poteva accompagnare la madre al cimitero per un nuovo
sopralluogo.
Erano le dieci del mattino e... “Pasquale a mamma, to patri ndi 'spetta”.
Giunti
dinanzi
alla lapide, la vedova iniziò la litania sistemando i fiori freschi. “Hai visto
che c'è
pure
Pasquale? Pari ieri che muristi, no trent'anni. E rivolta al figlio, vadda pari
ch'avissi
voglia
di parrari 'nta foto...”. Pasquale nel frattempo contava il numero di
telecamere di
controllo,
valutandone la portata.“Pasquale che fai nenti cià ddiri a ‘to patri?”. La voce
lo
riscosse,
si avvicinò alla foto, non si era mai accorto dello sguardo accusatore paterno.
Sentiva
il bisogno di un caffè, attese che la madre facesse il giro tra le tombe,
almeno dieci...
Era
come se fosse nel suo naturale habitat, sistemava vasi, puliva lapidi,
salutava, sorrideva,
piangeva,
mandava baci neanche fosse sul red carpet... “Pasquale figghio mio ti ricordi a
'za
Lucia?
Miii, non teni mimoria!”. Finalmente la visita finì e Pasquale poté
riaccompagnare la
madre
a casa. “Ricordati all'una si mancia. Ti priparu pasta chi sardi o preferisci a
pasta
'ncasciata?”.
“Mamma basta na cosa semplice”. “Ma chi ti senti mali? Nun mi fari scantari!”
e,
dopo avergli toccato la fronte, scese finalmente dall'auto. Pasquale si recò da
Don Fefè, si
sedette
al tavolino e, con la tazzina in mano che lo inebriava e calmava, osservò, come
un
gatto
col topo, la cassiera. Sorseggiando gli venne in mente l'immagine della vedova
del conte
Mazzaculla,
che proprio quella mattina aveva notato al cimitero. Era agghindata d’oro come
una
Madonna durante la processione; a lei dovevano rapinare! Il colpo avrebbe
fruttato tanto
denaro
e i morti li avrebbero lasciati in pace! “Don Fefè il vostro caffè è sidro,
nettare degli
dei,
schiarisce i pensieri”. Disse Pasquale uscendo. Ora era necessario contattare i
complici e
mettere
in atto il colpo. Pasquale voleva incontrare Mico, suo compagno di scuola che
da
quando
aveva sposato una straniera era sempre “muru muru co' spitali”. Inoltre aveva
un
pezzo
di terreno con annessa baracca appena fuori Scicato; la refurtiva poteva essere
nascosta
senza
problemi. Poi lo zio Cosimo, forte come un toro e, fortuna delle fortune, era
pure muto;
così
non avrebbe potuto raccontare a nessuno del colpo. Per ultimo Turi che aveva
un'autorimessa;
avrebbero così utilizzato il furgone di qualche suo cliente, sostituendone la
targa
con una recuperata in qualche discarica abbandonata. Quattro persone bastavano
sicuramente.
Non restava che incontrarli.
I
CONTATTI
Si
accorse che era già l'una e sua madre non poteva aspettare; l'avrebbe trovata
disperata, col
fazzoletto
in mano ad asciugarsi naso e occhi. Si affrettò e, pur non avendo fame, “pulizziò”
tutto
il piatto fondo di spaghetti alle sarde; fece pure la scarpetta con un bel
pezzo di pane di
grano
duro. La madre non contenta gli parò dinanzi un piatto con le melanzane ripiene
all'agrodolce.
“Mamma le mangio stasera!” disse Pasquale. “Lo sapevo che ti sentivi male,
non
hai mangiato nenti; ora chiamo u dutturi.” “Per farti contenta ne mangio una
sola!”. E il
povero
Pasquale si fece forza ad ingoiarne una. Una nausea assurda lo colse alla gola,
una
sola
cosa lo avrebbe potuto salvare: un buon caffè! Sarebbe andato al bar e dopo
avrebbe fatto
una
camminata sul lungomare di Scicato. Così fece. Uscì; era una giornata di sole
primaverile
e,
data l'ora, le quattordici e trenta, non c'era gente. Dopo aver ritemprato
corpo e occhi al bar,
Pasquale
iniziò la camminata che doveva alleggerirlo di un pasto le cui porzioni erano
degne
di
un refettorio di trenta affamati camionisti. Camminava e guardava il mare calmo
e azzurro,
respirava
a pieni polmoni. Si sedette su di una panchina rivolta alla spiaggia, chiuse
gli occhi
e...
“buongiorno Pasquale, anche tu ami il mare”. Pasquale aprì un occhio, poi
l'altro no...era
la
vedova del conte. ”Questo è il destino!” pensò. Si alzò subito, accennò un
baciamano.
“Contessa
come state?”. “Settati pure, lascia stare i salamelecchi, che fai qui?” chiese
la
donna.
“Nenti, mi sto riposando e poi il mare oggi è bello assai!”. “Ragione hai, io
esco a
quest'ora
quando non c'è nissuno. Lo sai le malelingue!” Sospirò. “Ma lei è ancora
giovane e
anche
piacente!”. “Chiamami Maria, ti prego!” e, guardandolo fisso negli occhi, “ora
devo
andare,
arriva gente! Buongiorno”. “Buongiorno donna Maria”. Mai si sarebbe immaginato
della
tristezza della contessa, abitava in una bella villa, i soldi non le mancavano,
era
rispettata
da tutti, eppure... Era giunto il momento di parlare con gli “amici”, il colpo
era
possibile!
Telefonò a Mico. “Sono Pasquale ti devo parlare. Tra mezz'ora sul lungomare di
Scicato”.
Mico, che era di poche parole, fu puntualissimo. Pasquale neppure lo aveva
4/15
riconosciuto.
Era smagrito, pallido, mal vestito, triste; dov'era finito il compagno di
scuola e
di
scorribande allegro e caciarone? “Compagno mio, ma che ti succede?” gli chiese
abbracciandolo.
“La porcata più grande della mia vita, sposare quella fimminazza!”. “Mi
dispiace
assai ma c'è un modo per uscirne. Ho pianificato tutto: rapiniamo la contessa
Maria
Mazzaculla,
facciamo i soldi senza rischiare.”. Mico lo guardò “Ma si paccio? Di carcere mi
basta
quello a casa!”. “Donna Maria ha un debole per me, organizzo tutto io!”. “Fammici
pinsari,
ci vediamo tra tre giorni, allo svincolo dell'autostrada!”. “Va bene facciamo
alle tre.”
Si
salutarono e Pasquale andò da zio Cosimo. Gli aprì lo zio, era ingrassato dall’
ultima volta,
il
volto rubicondo e sembrava pure alticcio! Aprì le braccia al nipote e quasi lo
stritolò.
Pasquale,
liberatosi dalle possenti braccia, cercò dove sedersi nel bailamme di quella
casa.
Disordine
e sporcizia dappertutto. Trovò una sedia appena più pulita; si sedette proprio “in
pizzo”
e iniziò “Zio ascolta attentamente ho un piano per una rapina! No, non ti
scantari,
niente
armi, niente sangu. Rapiniamo donna Maria. Ha oro e soldi, che ne pensi? Fammi
segno
di sì o no”. Lo zio Cosimo prese un pizzino e scrisse “sì pacciu?”. “No, io
frequento
donna
Maria. Una sera, quando lo dico io, entrate in casa e il gioco è fatto!”. “A
pinsari!”
Scrisse
lo zio. “Va bene, passo da te fra quattro giorni”. Lo salutò e andò da Turi.
Per non
insospettire
nessuno gli portò la macchina all'autorimessa.“Ciao Turi, ho la macchina che fa
un
romore strano, te lo fai un giro con me?”. Quando furono alla periferia di
Scicato gli
raccontò
del piano. “So benissimo che hai problemi di soldi, non fare finta di niente.
Ti offro
un
affare sicuro: dobbiamo rapinare un tale pieno di soldi, non ci sono pericoli!”.
“Ma tu si
proprio
sicuro?”. “Secondo te voglio mettermi nei guai, così mia madre muore?”. “Di
dinari
ne
ho bisogno assai, fammi sapere che ti serve e quando”. Si lasciarono così.
Adesso doveva
affascinare
la contessa Maria; gli era sembrata interessata, anche vogliosa di un uomo e
lui,
modestamente,
da buttare non era: occhi neri come la pece, capelli ondulati, naso greco e
bocca
carnosa. Il fisico asciutto e scattante! Guardandosi allo specchio, compiaciuto
pensò “si
pò
fari!” Dopo un’ultima taliata allo specchio, andò a letto. Il mattino seguente
iniziò con la
solita
chiamata. “Pasquale, a mamma, la colazione è pronta!”, Si stiracchiò come un
gatto al
sole,
si alzò e assaporò fresche briosce, marmellata e frutta. Non volle il caffè,
quello solo da
Fefè
si poteva gustare! Il pensiero era rivolto però al “piano B”. Doveva conoscere le
abitudini
della vedova, indossò maglioncino di cotone bianco, jeans larghi e snikers; si
profumò,
stava per uscire quando… “Figghiu quantu si beddu! Unni vai, non che mi lassi
sula
pi'
'na puttana?”. Era la madre che vedeva nell’uscita del figlio un potenziale
abbandono.
“No,
stai tranquilla”. Pasquale andò dritto dritto al bar di Fefè. Si sedette al
solito posto e
dopo
pochi minuti il caffè era pronto. La cassiera era più bella che mai, il seno in
evidenza e
lo
sguardo languido. Lui sorseggiava e la guardava fisso, ma lei niente, contava i
soldi, si
aggiustava
il golfino, leggeva il giornale se non c'erano clienti. A Pasquale venne il
dubbio
che
forse non le piaceva ma, si disse, era impossibile quando passava lui si
giravano anche le
pietre.
Pagò quanto dovuto e, dopo aver lanciato uno sguardo di fuoco alla donna, uscì
dal bar
per
appostarsi vicino alla villa della contessa. “Pasqua' che ci fai ammucciato'”
disse una
voce,
si girò. “Ciao Giacomì. No, sto 'mpuiato all'abbero, devo togliermi a scarpa pe
'na
petra”
rispose il ragazzo. “Si ‘na petra...”. “Pasqua' hai abbisogno di quarcosa?”
fece un'altra
voce.
“Ciao Fottunato. No grazie, ero solo stanco mi 'mpuiai all'abbero”. “Possibile
che non
si
può stare in pace, tutti ora passano?” pensò Pasquale. Decise di andar via, non
era giornata
oppure
era il destino, meglio ritornare al “piano A” e rubare nel cimitero? Ci voleva
un buon
caffè!
Don Fefè lo accolse come il solito, appena lo vide preparò l'aromatica
soluzione;
Pasquale
si sedette al tavolino e il cameriere glielo servì. Ma qualcosa di nuovo c'era,
la
cassiera
era diversa. “Don Fefè ci sono cambiamenti?”. “Rosa, la cassiera è appena
andata
via;
si marita le ha dato il cambio Concetta!” Ma come, il desiderio dei suoi sogni
proibiti si
sposava?
E con chi? “Pasqua' tu la taliavi ma mai nenti le dicesti! E che volevi che
restava
zitella
aspettando attia?!” disse Don Fefè. Mali si sentia Pasquale, lui che credeva di
essere
unico,
irresistibile, era stato scalzato via, sostituito. E ora? La nuova cassiera era
piatta. Prima
tutto
quel ben di dio e ora la carestia. Bevve il caffè ustionandosi, neppure lo
zucchero aveva
messo,
stava troppo male. Solo una cosa gli era rimasto: il colpo A o B che fosse!
Andò a
casa.
“Mamma stanotte sognai a papà, sento che ci devo andare a truvarlo!”. “Certo
figghio
mio,
anche se non è sabatu piaciri mi fa! Se vuoi, puoi portaci un bel cero longo,
longo!”.
“No
mamma, voglio solo parlarci, come fai tu!” rispose rabbrividendo al solo
pensiero di un
cero
votivo come quello per Santa Rosalia. Al cimitero, dopo aver comprato i fiori… “Vedi,
to'
figghio ti pensa sempre, Vero a mamma? Rivolto a Pasquale, ora parraci pure”. “No
mamma
il cuore ci parla, preferisco stare muto, poi voglio far visita a tutti i morti
che
canoscevo!”.
Pasquale in lontananza aveva visto donna Maria. Così, dopo una breve pausa di
riflessione
con mammà che lo guardava con occhi comprensivi, principiò ad avvicinarsi con
noncuranza
alla contessa.“Donna Maria, anche lei qua!”. “Ci vengo tutti i giorni, alla
stessa
ora,
la mattina, ne sento la nicissità!” rispose la donna con voce affranta e gli
occhi di fuoco
represso.
“Avete bisogno di quarcosa, non so prendere l'acqua per i fiori, pulire la
lapide in
alto,
non sono lavori da donna!”. “Pasqua' non mi dire così”. Poi sottovoce “ti
aspetto alle tre
sul
lungomare!”. E sparì tra le tombe. Pasquale quasi non credeva alle proprie
orecchie, suo
padre
lo aveva guidato, il furto lo avrebbe fatto ma da donna Maria!
L'
APPUNTAMENTO
Dopo
il solito giro fra i tumuli e l'interrogatorio... “Pasquale a mamma, guarda
quella foto; ti
ricordi
chi è?”. “No mamma!”. “Ma come, quand'eri picciriddu ti cattava le caramelle! È
don
Nino.
E quella fimmina, muriu giuvani, sulu settantenni; è a zia Tina! Miii, ma ce
l'aiu addiri
o
dutturi mi ti ordina 'u fosforu, non teni mimoria!”. Come Dio volle Pasquale la
riportò a
casa
e, con la promessa di essere puntuale per il pranzo, andò al bar. Il caffè ci
voleva! “Don
Fefè
un doppio caffè. Vengo dal cimitero e mi sento il sangue di ghiaccio come un
morto!”.
Sollecito
arrivò il caffè, ma aveva un gusto diverso. Forse era per colpa di “minni
sicchi”. Sì,
la
nuova cassiera; a Pasquale mancava proprio la Rosa la pettoruta. “Quasi quasi
glielo dico a
Don
Fefè di mandarla via!”. Meno male che aveva quell'appuntamento. Il pensiero
della
donna
lo solleticava; chissà cosa voleva da lui. Forse lo sapeva, quello che tutte le
donne
vogliono!
Con un sogghigno terminò il caffè, si alzò, pagò senza degnare di uno sguardo “la
meschina”
e tornò a casa: il pranzo lo attendeva. Al solito fu luculliano, degno di un
reggimento
per quantità, di un re per qualità. Lui però mangiava svogliatamente; erano
troppi
i
“pinzeri” che aveva. Comunque fece onore alle pietanze preparate. D'altronde se
non lo
avesse
fatto il dottore sarebbe stato chiamato subito. Guardava continuamente
l'orologio in
maniera
furtiva; la madre era come l'FBI: voleva sapere tutto. Alle tre meno dieci
sgattaiolò
fuori
casa con un “Mamma nesciu”. E lei di rimando “Cettu u cafè di Don Fefè
t'aspetta non
posso
preparartelo io?”. Neppure rispose, salì in auto e sgommò verso la marina. Lei
era lì,
sedeva
languidamente sulla solita panchina, il volto rivolto al sole, le labbra
leggermente
dischiuse,
le gambe accavallate e gli occhiali da sole che le celavano gran parte del
volto. La
posa
era d'attesa. Pasquale l'ammirò per un po'. Era davvero appetibile, peccato per
l'età, vent'
anni
più di lui, ma doveva sacrificarsi il colpo. “S'ha da fare” pensò. “Pasquà, da
quanto mi
stai
a guardare? Settati vicino a me! Lo vedi quanto è bello il mare?”. “Donna Maria
voi siete
più
bella assai!” rispose quasi convinto il ragazzo. “Pasquà tu mi piaci. Da un
anno nessuno
mi
sta accanto. Io non resisto. Stasera alle dieci t'aspetto a casa mia. Prendi
questa chiave, è
del
cancelletto sul retro della casa. T'aspetto” si alzò e in un attimo era già
andata via. A
Pasquale
quella chiave bruciava tra le mani, la strinse nel pugno e si avviò da Don
Fefè; solo
lì
avrebbe trovato pace. La sera alla dieci puntuale aprì il cancelletto con la
chiave, entrò nel
giardino
quando un cane gli si avventò alla caviglia. Più tentava di allontanarlo più
quello
faceva
baccano, ringhiava, strattonava il calzone, si allontanava abbaiando per
tornare subito
all'attacco.
Fu tale la confusione che si accese una luce ad una finestra e si affacciò Don
Luigi
con
in mano la lupara e iniziò ad urlare “Donna Maria, contessa, chiamassi i
carabbineri c'è
un
ladro nel giardino, appena lo vedo gli sparo!”. Donna Maria per un po' fece
finta di niente
ma
dato che il vicino non la smetteva, dovette aprire la porta sul balcone con un “Grazie
Don
Luigi
se non fosse per voi chissà quanti malintenzionati. Ho chiamato il 118, Fifì
vieni da
mamma
che ti do l'osso” rivolta al cagnolino. Pasquale intanto con la caviglia
insanguinata e
dolorante,
il pantalone strappato, era riuscito a salire su di un albero di limoni con
Fifì che
ringhiava
di sotto, le spine del limone su tutto il corpo e una gran paura addosso di
essere
impallinato.
Sapeva che Don Luigi aveva il grilletto facile, era già stato arrestato un paio
di
volte
per “eccesso di lupara”. Appena Donna Maria riuscì a far rientrare il cane in
casa, dopo
che
Don Luigi aveva lasciato la finestra per aspettare i carabbineri all'angolo
della strada,
scese
dall'albero e, come un “curnutu mazziato”, si chiuse alle spalle il
cancelletto, prese e
l'auto
e tornò a casa. Il più piano possibile entrò, si spogliò, si tolse le spine con
le pinzette
delle
sopracciglia della madre e, con le lacrime agli occhi per il dolore, si coricò.
“Possibile
che
mancu di nascosto so entrare nella casa di una fimmina che m'aspetta?”. Con
questo
cocente
dubbio di addormentò! L'indomani mattina, quando una lama di luce lo svegliò,
si
alzò
in preda ai dolori muscolari. Si guardò allo specchio, la sera precedente aveva
lasciato il
segno:
una lunga striscia di sangue sulla guancia, per non parlare poi delle gambe e
delle
braccia,
era come se avesse lottato contro gli artigli di un gatto. Fece la doccia, si
coprì il
graffio
con il fard della madre, sembrava avvinazzato, si vestì e, cosa nuova, uscì di
casa
senza
far colazione, lasciando la madre ad arrovellarsi sul malessere che aveva
colpito il
figlio.
Pasquale andò subito al bar, il caffè era questione molto importante. Pagò
senza
degnare
di uno sguardo “la meschina” e si recò alla casa della contessa, doveva
assolutamente
chiarire.
Suonò e la donna lo fece entrare. C'era anche Fifì, il maledetto lo riconobbe
subito e
si
slanciò contro le parti “basse” di Pasquale. “Mi vuoi rovinare bastardo?” gridò
l'uomo
tirandogli
un poderoso calcio proteggendosi, allo stesso tempo, il “capitale”. Fifì capì
l'antifona
e, con la coda tra le zampe, guaendo il proprio dolore si rifugiò sotto il
divano e da
lì
non si mosse più. “Mi dispiace assai Pasquale”, disse la contessa dopo averlo
fatto
accomodare,
non potevo immaginare. Lo vuoi un caffè, te lo faccio con le mie manine”. Non
aspettò
neppure la risposta e corse in cucina tra uno svolazzare di volants e il
ticchettio delle
scarpe.
Pasquale si guardava attorno, la casa era bella e grande, di buon gusto; si
vedeva che
c'erano
i soldi. La donna non era il suo tipo ma poteva anche sacrificarsi per qualche
giorno.
Fece
ritorno la contessa con un vassoio d'argento, che Pasquale apprezzò; un po'
meno il
caffè,
donna Maria non era cosa! “Caro Pasquale, se ci tieni possiamo frequentarci, ma
tu lo
vuoi
veramente?”. Chiese la donna. “Sicuro sono” rispose Pasquale senza riuscire a
guardarla
negli
occhi. La donna gli si fece vicina e stringendolo a forza tra le braccia gli
offrì la bocca.
“Ma
come, neanche ci conosciamo e vuoi baciarmi?” chiese Pasquale improvvisamente
impaurito.
Poi, ricordandosi che l'uomo è uomo sempre, nella buona e nella cattiva sorte,
la
baciò
con trasporto, palpandola tutta. Donna Maria, che era “affamata assai”, gli
saltò
addosso.
Salvò Pasquale lo squillo del cellulare. Si alzò, si ricompose. “Scusa Maria è
mia
madre;
se non rispondo mi dà per disperso e avvisa le forze dell'ordine”. Uscì in cortile
e
rispose
“si ora vegnu. Si spettami...No...tutto a posto”. Rientrando avvisò la donna “Maria
ci
vediamo
stasera, devo andare!” e uscì dalla casa. Non era la madre ma Mico; aveva
dimenticato
l’appuntamento. Telefonò alla madre. Avrebbe pranzato fuori casa; alle sue
proteste
rispose che tutto quello che aveva preparato lo avrebbe consumato a cena, a
costo di
scoppiare.
Andò subito da zio Cosimo che, appena lo vide, a segni gli chiese degli altri;
gli
rispose
che stavano arrivando, stringendo il pugno fece comprendere che i tempi erano
maturi.
Passarono pochi minuti e giunsero i due uomini; erano stati così veloci che
Pasquale
dedusse
che avevano proprio bisogno di soldi. “Amici, il colpo si farà, devo fare
ancora un
sopralluogo
nella casa della contessa. Lei ormai ha fiducia in me, devo cuocerla ben bene e
dopo
saremo pronti! Quando vi chiamo non bisogna perdere tempo. Tu, Turi, cerca il
furgone
e
una targa falsa; tu, zio Cosimo, bevi di meno e dimagrisci qualche grammo in
previsione del
furto,
così ti muovi meglio; tu, Mico, ce l'hai ancora il terreno con la baracca? Si?
Bene,
ricordati
di trovarci dentro un buon nascondiglio per la refurtiva. Quando sono pronto vi
avverto!”.
Così dicendo sciolse la seduta e ognuno tornò ai propri affari. Pasquale, che
si
sentiva
come Garibaldi prima dell'impresa dei Mille, decise che il caffè ci voleva. Si
recò da
Don
Fefè che, appena lo vide, preparò l'aromatica bevanda. Pasquale seduto al
tavolino
osservava
“a meschina”. “Quella non è donna è troppo piatta, mi fa passare la voglia del
caffè”.
E si girò con tutta la sedia dalla parte opposta. Chiudendo gli occhi riuscì a
creare
l'atmosfera
giusta per berlo. Dopo decise di andare sul lungomare e...Maria c'era! Le si
sedette
accanto. “Pasqua' mi dispiace per come è andata; che fai stasera ci vieni a
casa mia?”.
“E
Fifì?”. “Ti giuro che lo chiudo in gabinetto!”. “Vengo alle otto, no anzi alle
nove; prima
devo
cenare sennò mia madre mi fa il ricovero coatto”. “Pasquà t'aspetto”. Gli disse
stringendogli
forte la mano e ficcandogli un' unghia nel palmo, lasciandogli un segno di
fuoco.
Pasquale si trattenne dall'urlare dal dolore e con una smorfia si allontanò di
corsa.
Appena
girato l'angolo, non visto, iniziò a leccarsi la ferita per fermare il sangue
ed
imprecando
“ma guarda sta p... malan...du duluri, ma quella è capace di tagliarmele!!”.
Quando
si riprese e il sangue fu fermato, andò con la macchina nel paese di Luvirato,
dove
sapeva
esserci un negozio di cinesi. Aveva bisogno di comprare tute nere per il furto.
Era
sicuro
che gli altri tre erano capaci di presentarsi con vestiti eleganti, con tanto
di camicia e
cravatta,
visto che facevano “visita” in casa della contessa. “Buongiorno mi servono
vestiti
scuri”
disse. Una cinesina piccola e gentile lo condusse dove vi erano vestiti in pura
plastica
scura;
un fiammifero acceso e l'effetto torcia era assicurato.“No, no, maglione nero e
pantaloni
aderenti pure neri”. La cinesina gli mostrò maglioni a collo alto e maniche
lunghe e
pantacollant
neri. Potevano andare bene ma il problema c'era: che taglia prendere per lo zio
Cosimo
con quella stazza? Poi il caldo già si faceva sentire, ancora qualche giorno e
la
temperatura
sarebbe salita. Con quegli abiti avrebbero sudato come muli in salita. Comunque
non
c'era altro; scelse le taglie dalla XS per il povero Turi alla XXXL per lo zio.
Pagò, uscì e
si
recò al negozio di articoli sportivi e comprò tre berretti di lana neri, di
comprare
passamontagna
non aveva avuto il coraggio. Per la strada, da un marocchino, acquistò tre paia
di
occhiali neri. C'era tutto, però un dubbio gli venne: avrebbero indossato ciò
che aveva
comprato?
Guardando l'orologio si accorse che era tardi, la madre lo attendeva. Nascose
gli
acquisti
nel bagagliaio e velocemente si avviò verso casa, fece una doccia rilassante e
si
sedette
a tavola. La madre aveva preparato di tutto e di più: antipasto di pescespada
con
melanzane
bollite, pasta alla norma, involtini di pescespada arrostito e, tanto per gradire,
peperoni
ripieni fritti. Insomma “'na cosa leggere leggera”. Pasquale era spaventato.
Vedeva
la
morte con gli occhi, era un'impresa titanica poter mangiare tutto e poi restare
vivo.
Cominciò
ad assaggiare, un po' di uno e un po' dell'altro, quando un boato gli esplose
vicino
all'orecchio.
“Chi fai non manci? Cucinai tuttu u iornu pi ttia e tu ingrato chi fai?
Acedduzzu!
Mancia
o moru!”. E così, costretto da sensi di colpa degni di uno tsunami, Pasquale
mangiò e
mangiò
e all'appuntamento con Maria non si presentò. Non riuscì neppure a telefonare a
causa
delle nausee che ad intermittenza lo sovrastavano. Andò direttamente a letto,
solo,
nauseabondo
e frustrato, con pensieri di omicidio nei confronti della madre. A mezzanotte
lo
riscosse
il cellulare: era Maria. “Che fai? Mi vuoi far morire di desiderio? Fai il
prezioso?”.
“No,
è che io sto morendo!”. Pasquale chiuse la comunicazione.
IL
PIANO B
L'indomani,
subito dopo colazione ed il caffè da Don Fefè, Pasquale, anche se non si
sentiva
granché
bene, andò a casa della contessa. Lei lo accolse freddamente; si era sentita
snobbata
la
sera prima. Lui cercò di spiegarle il malessere che lo aveva colpito dopo la
cena. Lei
piccata
rispose “ma quanti anni hai? Vivi ancora con tua madre che ti tratta come un
picciriddu,
crisci figghiu e deciditi!”. “Non sono un bambino!” rispose Pasquale e la prese
tra
le
braccia e la baciò con violenza. Maria, che era proprio da tanto che lo
desiderava, si staccò
e
lo trascinò, letteralmente, in camera. Lo gettò sul talamo e iniziò
furiosamente a spogliarlo.
Pasquale,
che non aveva mai subito un assalto di tal genere, a poco a poco andava
perdendo
di
passione, guardava con occhi sbarrati la furia che aveva dinanzi. Ma doveva
farsi forza, il
colpo
l'attendeva. Chiuse gli occhi e si diede da fare. “Quanto t'ho desiderato
Pasquale mio!”.
Anche
Pasquale sospirava, ma per altri motivi; rivedeva gli amplessi passati quando
era
l'amore
giovanile a farla da padrona. Ad un tratto si accorse che qualcuno gli leccava
la pianta
del
piede: era Fifì! “Che schifo” pensò, gli tirò un calcio e quello andò via
guaendo. Pasquale
si
alzò dal letto, si affacciò alla finestra e valutò la distanza dal giardino,
cosa positiva alle
finestre
non c'erano sbarre. “Dov’è il bagno?”. Maria languidamente indicandoglielo con
la
mano.
Anche questo aveva una finestra abbastanza grande, prese nota Pasquale, i
complici
potevano
entrare da lì. Inoltre era laterale rispetto alla strada principale. Tornato
dalla donna
“Maria
ora devo andare, ci vediamo stasera”. Lei non rispose; mugolò un sì, l'amore
l'aveva
stancata.
Si rivestì, si pettinò con le dita della mano, uscì dalla stanza. Nel corridoio
incontrò
la
cameriera che lo guardò con un sorrisino che gli diede proprio fastidio. Doveva
ricordarsi
di
annotare quando aveva la giornata libera. Uscito di casa vide il giardiniere
che stava
pulendo
le aiuole. “E sono due” pensò Pasquale, e, come se non bastasse, c'era pure Don
Luigi
affacciato alla finestra. “Buongiorno, ma io ti ho già visto?” chiese l'uomo. “Ma
quando
mai,
rispose Pasquale, mi scambia con qualcuno”. E di corsa, col volto basso tornò a
casa.
“Sento
odore di p...”. Lo accolse la madre. “Ma quando mai! Sempre na cosa pensi.
Piuttosto
oggi
mangio picca picca, non voglio sentirmi male. Hai capito, vero?”. “Ma che ti
pigghia,
figlio
mio, mai m'hai parratu accussì!”. Così dicendo si chiuse nella propria camera
con gran
sbattere
di porta. Pasquale si sedette a tavola, non mangiò molto, piluccò un po' qua e
un po'
là;
si sentiva bene, finalmente poteva fare ciò che voleva. Terminato tutto andò al
bar di Don
Fefè.
Si sedette e subito arrivò l'amato caffè; ormai aveva un sapore diverso, non
più di
femmina
dalla curve golose ma di adrenalina da super colpo. Pasquale aveva preso in
mano
un
taccuino in cui annotava tutto l'occorrente. Aveva preso nota degli abiti e
accanto aveva
segnato
“OK”, la posizione della camera e bagno e un altro “OK”; ora mancavano i giorni
liberi
degli inservienti e l'ubicazione dei gioielli. Finito il caffè, si stiracchiò,
posò il libricino
e
si diresse verso casa, doveva riposare prima dell'incontro di fuoco. Pasquale
iniziò così a
frequentare
regolarmente la contessa Maria Mazzaculla. Osservava attentamente abitudini e
situazioni;
aveva scoperto che il giorno libero della servitù era il venerdì; aveva inoltre
fatto
uno
schizzo della casa con tutte le porte e le finestre e un pomeriggio, riunitosi
con gli
“amici”,
aveva pianificato il furto. Sarebbe stato di venerdì, proprio mentre lui intratteneva
la
contessa'era.
Un unico problema: non aveva scoperto con esattezza dove Maria teneva i
gioielli
ma aveva escogitato un piano infallibile. Con la scusa di portarla al teatro le
avrebbe
chiesto
di essere elegantissima, per cui sarebbe stata costretta ad ingioiellarsi e il
gioco era
fatto!.
“Maria stasera ti porto a teatro. Danno “Il Rigoletto”. Devi essere
elegantissima, ho qui
i
biglietti” disse una fatidica sera. “Lo sapevo che eri l'uomo giusto per me!
Aiutami a
vestirmi,
poi stanotte, quando torniamo, sarai tu a togliermeli. Scegli tu i gioielli che
più si
adattano,
te ne prego!”. A Pasquale non pareva vero. Si avvicinò a Maria e carezzandole
svogliatamente
il collo, le consigliò l'abito e poi finalmente scoprì dove teneva l'oro. Nella
biblioteca
del conte, dietro un quadro si celava la cassaforte; insomma un nascondiglio
banale.
Maria digitò una parola segreta che più ovvia non poteva essere: “Fifì”. Aprì
la
cassaforte.
“Amore non è meglio che mi allontani, questi sono segreti tuoi” disse Pasquale.
“Ma
quali segreti, a Pasquà, io non ciò più nenti di nenti. Mio marito si giocava
tutto a poker;
m'ha
lasciato solo un braccialetto, tutto il resto è falso! “Vendo oro” mi conosce
benissimo.
Solo
la casa non è ipotecata ed è con la pensione che campo!” terminò Maria. A
Pasquale
cedettero
le gambe, ebbe un capogiro, si appoggiò alla parete e rivide i propri sacrifici
fatti
per
nulla. “Amore, disse con voce roca, non ti preoccupare contano i sentimenti”.
Già ma
quali?
Intanto quella sera dovette portarla al teatro e sorbirsi l'opera lirica che
odiava. La
riportò
a casa e, con la scusa di un forte mal di testa, ritornò alla propria dimora
dove l'accolse
un
materno “i p... fannu fari tardi, mentre a mamma mori di prioccupazioni!”. Le
fu risposto
un
“Affanc...!” poderoso. Pasquale si girava e rigirava nel letto; doveva dire ai
complici che il
furto
cambiava dal “piano B” al “piano A”, dalla casa di Maria al cimitero!
IL
PIANO A
Pasquale
l'indomani mattina si alzò di buon ora. Subito dopo la colazione e il caffè da
Don
Fefè
si recò a casa di zio Cosimo. Bussò varie volte prima che gli aprisse un
assonnato zio,
sempre
più grasso e sempre più trasandato. Lo fece accomodare ma, osservandosi
attorno,
Pasquale
decise che era meglio restare in piedi anche perché la sporcizia era totale.
Guardando
negli occhi l'uomo gli disse “Zio il furto si fa al cimitero, la contessa è
tutto fumo
e
piccioli nenti, la carità gliela devo fare io. Ti ho portato i vestiti scuri,
così di sera non ti
vedono,
ora te li provi. Io intanto telefono a Turi e Mico, così vengono e decidiamo”.
Gli
amici
arrivarono di lì a poco, proprio mentre lo zio Cosimo si mostrava in “tutto il
suo
splendore”
in pantacollant e maglione nero, corredato da cappello e occhiali. Al vederlo
scoppiarono
a ridere. Effettivamente il pantalone non riusciva a coprirgli né sedere né
pancia;
il
maglione a collo alto lo strozzava ed era tanto simile ad un folle scappato da
un manicomio.
Quando
riuscirono a smettere, cosa non proprio facile, decisero che all'abbigliamento
avrebbe
provveduto
da solo; l'importante era che fosse scuro. Gli altri due invece, una volta
provatolo,
convennero che era adatto all’impresa. Pasquale, liberando il tavolo dal
ciarpame
che
c'era, prospettò il piano aiutandosi con un disegnino semplice: in sostanza un
rettangolo,
alcuni
quadrati e una linea. L’appuntamento era fissato per tre giorni dopo, alle otto
di sera.
Sarebbero
arrivati separatamente. Mico avrebbe posteggiato il furgone sul lato del muro dove
c'era
la breccia. Pasquale avrebbe razziato il lato nord-est mentre a Turi sarebbe
toccato
quello
nord-ovest, il versante sud-est sarebbe stato preda di Mico con zio Cosimo ad
imperversare
in quello sud-ovest. Alle dieci e trenta in punto il primo ritorno al furgone
lasciato
aperto; quindi nuovo raid fino alle dodici e poi via; ognuno nella propria
casa, mentre
Mico
avrebbe nascosto il furgone nel terreno di proprietà. Dopo una settimana,
refurtiva da
dividere
e collocare nel nascondiglio. Contatto con gli acquirenti dopo quindici giorni.
Sembrava
tutto a posto. Per primo andò via Pasquale che si recò subito al bar da Don
Fefè,
aveva
bisogno di riprendersi con un buon caffè, la situazione era adrenalinica. Mico
tornò a
casa
dove l'accolse un'imbufalita moglie, quindi Turi che cercò in una discarica di
auto rubate
la
targa per il furgone. Zio Cosimo, rimasto solo, guardò il pantacollant, lo girò
e rigirò tra le
mani
con un “che minchia copre...”. L o gettò in giardino dove un cane iniziò a
strapparlo coi
denti.
IL
PIANO C
Era
il giorno del furto. Da qualche tempo Pasquale non andava da Maria adducendo
l'influenza,
non usciva e la madre felice lo nutriva a più non posso. Ormai era tutto
pronto,
questa
volta il pantacollant l'avrebbe dovuto mettere lui. Sembrava un mimo pronto per
lo
spettacolo,
mancavano solo i guanti bianchi. Gli si accese una lampadina, aveva pensato a
tutto
ma non ai guanti per evitare di lasciare le impronte! Uscì di corsa e andò al
supermercato
vicino, acquistando quattro paia di guanti in plastica colorata. Ora si sentiva
tranquillo.
Decise di andare al “Bar dello sport”, sentiva necessità di un buon caffè.
Subito
Don
Fefè gli portò l'amata bevanda, questa volta però gli si avvicinò e gli disse “Pasquà,
che
c’hai?
Non mi sembri tranquillo, allora è vero che prepari un colpo!”. A Pasquale il
caffè
andò
di traverso e iniziò a tossire con gli occhi fuori dalla orbite. “Ma possibile
che in questo
paese
di m... sanno tutto di tutti prima ancora che accada qualcosa?” pensò, era
quindi
necessario
cambiare piano. “Ma che dici Fefè, ti pare possibile che faccia qualcosa che
possa
far
stare male mia madre?”. “Hai raggione, tu si un bravu figghiu, scusami Pasquà.
A gente è
mala
assai! Se permetti il caffè te lo offro io, voglio farmi perdonare!”. E gli
diede una pacca
sulla
spalla. Grande caffè lo aveva salvato da pericolo sicuro. Doveva chiamare gli
amici e far
saltare
il piano. Fuori dal bar telefonò a Turi e Mico, annullando tutto. Andò di persona
da zio
Cosimo.
Lo trovò nel cortile. “Zio Cosimo non se ne fa nenti. Meglio poveri che in
gabbia”.
L'uomo
l'abbracciò, anche lui concordava. Tornato a casa, mise i guanti di plastica
nella
cucina,
li avrebbe utilizzati la madre, si cambiò e andò da Maria. Il cane Fifì, memore
dei
calci
presi, appena lo vide si nascose in un cespuglio; la contessa gli aprì il
portone, aveva gli
occhi
cerchiati, sembrava avesse pianto.“Entra Pasquale!” disse con voce stanca. Non
era la
donna
aggressiva che aveva conosciuto precedentemente, sembrava sofferta, più quieta,
soprattutto
diversa. Le prese le mani “Maria che hai? Sei malata?”. “Si malata d'amore per
te!”
terminò singhiozzando. Pasquale la prese tra le braccia, forse non era la donna
ideale,
non
era giovanissima, però sicuramente lo amava, fece due conti: non l'avrebbe
sposata,
altrimenti
avrebbe perso la pensione del marito, ma da lei affitto non ne doveva pagare,
poteva
continuare ad essere viziato e coccolato, dalle mani soffocanti della madre
sarebbe
passato
alle cure appassionate di Maria, in fondo gli conveniva. L’affare della sua
vita
sarebbe
stato il “piano C”. Non lo aveva previsto, non era male e soprattutto era
sicuro!
Finalmente
sereno si lasciò andare sul petto di Maria!
FINE
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