Osservo
dall' alto il mio corpo, sembro una bambola abbandonata. I vestiti strappati,
le gambe scomposte, il vestito sollevato, le braccia che stringono il ventre
scoperto. Il mio volto pur essendo tumefatto è bellissimo ma rassegnato, le
labbra sono serrate, gli occhi spalancati sull' abisso.
Non provo più dolore, ormai, lo so, ho smesso
di soffrire.
Piove,
i capelli sono incollati al viso, è un' acqua benedetta, mi lava dallo sporco
degli altri. Sono stata abbandonata in un' area di servizio dell' autostrada
non so quale.
Ancora
non si sono accorti di me, fra poco arriverà l' alba. Con la luce mi ritroveranno, ne sono certa!
Non
provo vergogna per quello che mostro, altri la devono provare.
Fra
le dita stringo un biglietto, l'ho tenuto nascosto tra il pollice e l'indice, è
la prova di quanto mi hanno fatto, avrò giustizia!
Sono
una ragazza di colore di soli diciannove anni, sono carina, intelligente,
allegra e piena di speranza....sbaglio... ero carina, ero intelligente, avevo
solo diciannove anni, avevo tanti sogni...mi hanno seviziata e uccisa!
Quante
speranze disattese, illusioni fallaci!
Devono pagare per le offese, per la mia vita spezzata ancor prima di
assaporarla, per non avermi fatta gioire
e godere dei miei giovani anni. Non ho potuto amare ed essere amata, nessuno mi
ha stretta tra le braccia per amore, nessuno mi ha detto “Sono innamorato di
te. A nessuno ho detto “Mi manchi, ti amo.”
Non
ho ricordi di baci appassionati e innamorati solo di amore depredato!
Pagheranno,
si ne sono certa, pagheranno! La mia morte non può essere inutile!
E'
la mia unica consolazione.
Tutto
era iniziato un anno fa.....
C'era una volta una ragazza povera, giovane e bella...vorrei
raccontare ma le favole hanno un finale
roseo, la mia chiude la porta alla speranza....
“Signora
Mogabi, lei ha una figlia giovane,
intelligente, adatta al lavoro. Come si chiama? Quanti anni ha? Me
l'affidi, la porto con me in Italia, vi sono grandi possibilità di lavoro nelle città europee, le assicuro che con quanto guadagnerà potrà mantenere non
solo se stessa ma anche lei e i
fratellini, se non sbaglio sono cinque vero?”
Così
si presentò il signor De Vitis a mia madre nella nostra povera casa di
Mogadiscio. Era anacronistico con i suoi abiti alla moda, nuovi, puliti. Lo
guardavamo come un dio, noi non avevamo niente, intorno solo povertà. Mia madre
col suo lavoro di lavandaia, riusciva appena a sfamarci tutti. Mio padre era
morto da alcuni anni, io non ricordavo il suo volto, era sempre fuori casa a
cercare occupazioni, che si
rivelavano saltuarie, per permetterci di
vivere. Spesso tornava ubriaco e il più delle volte violento. Mia madre subiva sia lui che le numerose gravidanze. Quel
signore ci dava una via d' uscita.
Quando
andò via promettendo di tornare, presi
le mani nodose di mia madre e baciandole le dissi “Madre che favola, un lavoro,
un lavoro vero! Potremmo vivere bene. Cibo due volte al giorno per tutti!
Io
sono grande, so difendermi, non mi capiterà nulla di male. Madre pensateci,
mandatemi in Italia con la vostra benedizione. E' giusto che possa aiutare
tutti voi.
Guardatevi
intorno, quanta miseria! I bambini
spesso piangono nella notte per la fame, non possono studiare, io potrei dar
loro un futuro migliore!”
Mia
madre nella sua grande saggezza mi rispose “Non sempre è giusto credere
all'uomo bianco. Perchè ci vuole aiutare? Cosa vuole da te in cambio? Nulla dà
per nulla!” Concluse.
Nei
giorni a seguire continuai a
“torturarla” perchè mi accontentasse. Ricordo che la notte sognavo un vita
meravigliosa per me e la mia famiglia. Lavorando avrei dato loro tutto quello
di cui avevano bisogno: libri per la scuola dei più piccoli, una bicicletta per
Mambi, mio fratello di tredici anni, a mia madre avrei regalato una macchina
per cucire così avrebbe potuto confezionare abiti per le vicine, si sarebbe
fatta pagare e non sarebbe stata più
costretta a lavare al fiume. Le sue dita erano distorte dall' artrite. Abiti
nuovi per i bambini, scarpe vere, su misura e non usate, risuolate o sfondate,
il tetto della casa sarebbe stato sistemato con tegole vere, niente pioggia in
casa!
Quanti
sogni e quante discussioni con mia madre, fino a quando
acconsentì e il signor De Vitis mi condusse
in Italia.
Il
viaggio me lo pagò lui, diede anche dei soldi a mia madre “ Signora questo è
solo un anticipo, vedrà sua figlia starà bene e l'aiuterà!”
Mia
madre non sorrise, lacrime amare le solcavano il viso, non disse nulla, mi
strinse forte forte al cuore e mi sussurrò “Scrivimi, raccontami tutto. Io ho
paura, solo tu mi puoi tranquillizzare!”
Mi
baciò più e più volte, mi strinse ancora al suo cuore che rifiutava di
lasciarmi.
Il
signor De Vitis mi comprò un abito di
cotone, una giacchina, un paio di scarpe col tacco, con le quali mi sentii una
principessa. Mi portò in un albergo dove trovai altre tre ragazze come me,
eccitate per la vita che ci attendeva..
Fummo
fatte salire su di un furgone e partimmo. Due erano gli uomini che ci
accompagnarono in questo lungo viaggio: il signor De Vitis e un autista.
Il
viaggio fu lungo, estenuante, io non vidi nulla, non avevamo documenti per cui
dovevamo stare nascoste tra cassette e
sacchi nel dietro del furgone. Di notte ci facevano uscire per sgranchirci le
gambe, mangiare qualcosa, rispondere agli impellenti bisogni corporali.
Fu
un viaggio allucinante ma la speranza non abbandonava nessuno di noi, in Italia
ci attendeva la vita vera. Avremmo lavorato onestamente, guadagnato ed aiutato
a casa poi, forse col tempo, i nostri cari ci avrebbero raggiunte in Italia.
Che
follia i nostri sogni! La realtà ci raggiunse ben presto, non appena giunte in
Italia. Non sapevo neppure in quale città fossi. Non dovevo sapere!
La
verità, quella cruda e terrificante mi colpì subito, come una porta sbattuta
violentemente sul volto, come un pugno che ti spacca le labbra, uno schiaffo
che ti colpisce il volto e non sai
perchè. Ero prigioniera con le altre ragazze di uomini senza scrupoli! Eravamo
oggetti nelle loro mani. Le violenze arrivarono subito, botte, bruciature di
sigaretta, ricatti e violenze sessuali.
Era
inutile piangere disperarsi, gridare, pregare, supplicare, ribellarsi dovevi
solo subire se volevi sopravvivere.
Io
volevo vivere, volevo poter tornare a casa da mia madre e dai miei fratelli.
Iniziò
la mia vita da marciapiede.
Non
chiedetemi come feci, come mi abituai, chi non prova la paura, il terrore, non
potrà mai capire. Facile per i puritani rinchiusi nelle case comode e tranquille ergersi a giudici, facile...La
realtà è altro!
Mi
mostrai remissiva, dovevo essere così. Lo schifo della mia vita sulla strada mi
arrivava ad ondate nauseabonde, spesso vomitavo pur non avendo assaggiato cibo.
La lordura che avevo intorno mi sconvolgeva e allora fingevo che quella che
lavorava sulla strada, che indossava abiti discinti, che si muoveva ancheggiando, incontrava i
clienti, era un' altra me, non ero io, era una maschera che guadagnava denaro
per il proprio protettore.
Non
so come riuscii a carpire la fiducia del mio aguzzino, facevo la carina con la
morte nel cuore, la nausea nella gola e lui mi lasciava una piccola parte dei
guadagni serali e quelli li inviavo a mia madre con una lettera.
Iniziava
così la menzogna...
“Cara
mamma, scrivevo, sono felice. Per il momento condivido l'appartamento con due
mie colleghe. Lavoro in un negozio di abbigliamento, sapessi quanti bei
vestiti, scarpe, borse. I miei occhi sono sempre spalancati per la meraviglia.
Ho una stanza tutta per me, un letto comodo, la televisione ed il cellulare.
Sai cos' è? Un telefono piccolo piccolo che uso solo io. Quando avrò più soldi
da parte te ne comprerò uno e potremo parlare tanto insieme. Coi soldi che ti
invio
compra
qualcosa per te e provvedi ai bambini.
Ti bacio e ti abbraccio, ti penso tanto. Io sto benissimo, sono felice, stai
tranquilla. Prega par me” Chiudevo ogni volta posando un bacio sulla lettera,
così mi illudevo di baciare la mia mamma..
A
mia madre parlavo della vita che avrei voluto vivere mai della dura e cruda
realtà. La mia vita scorreva sui binari paralleli della menzogna e della
verità.
Ogni
sera era un incubo, avevo anche paura dei clienti violenti, per fortuna non mi
era capitato quello che era successo ad una delle ragazze che era stata portata
in Italia con me.
Un
vecchio cliente ubriaco le aveva buttato addosso dell'acido e l'aveva
deturpata.
Era
rimasta in ospedale, il protettore l'aveva abbandonata, in quelle condizioni
non serviva più, era un giocattolo rotto che gli uomini non volevano, lei si era uccisa con una dose letale di
droga .
Io
non mi drogavo, volevo essere sempre presente a me stessa, evitare guai.
Se
mi capitava di uscire durante il giorno, invidiavo le ragazze che incontravo
per la strada. Ridevano, sembravano felici, alcune avevano il ragazzo accanto
che le stringeva con amore. Avrei mai potuto avere tutto questo? Ero anche io
una ragazza ma ..quanta differenza!
La
mattina se non ero troppo stanca, prendevo un foglio di carta e scrivevo..
“Mamma
cara, quanto mi manchi ma io sono così felice! Vado a scuola guida, voglio
prendere la patente, così appena potrò comprerò una macchina, magari vecchia,
ma ci pensi come sarà bello quando potrete venire in Italia vi porterò in giro con la mia auto!
Scrivevo
ciò che avrei voluto che fosse.
Sono
sicura, mia madre era orgogliosa di questa figlia che aveva fatto “fortuna” in
Italia.
Alle
amiche avrebbe parlato della mia casa, del mio lavoro, del telefonino,
della
fantomatica macchina che avrei acquistato. Così lei avrebbe sognato con me! Forse un sogno condiviso prima o dopo
sarebbe diventato realtà, forse...
Ultimamente
solo prepararmi per la notte era diventato un peso insopportabile, mi truccavo
gli occhi fino all'inverosimile, volevo nascondermi dietro il mascara, l'
ombretto, le ciglia finte, il fard. Nascondevo i capelli con una parrucca, dovevo, volevo
essere irriconoscibile. Quella donna che si muoveva con sicurezza fra le auto
in sosta, che mercanteggiava con i potenziali clienti non aveva nulla in comune
con la ragazzina portata via con
l'inganno da una casa povera ma onesta.
Quella
falsamente sicura donna che palpeggiava,
vendeva il surrogato dell' amore non aveva niente in comune con la figlia
della lavandaia che insegnava ai
fratellini a camminare, leggere,
contare. Volevo tenere le due facce della mia vita assolutamente divise. Che abissi fra le due realtà!
Ero
in Italia da solo un anno ma sembrava trascorsa una vita!
Solo
le lettere che scrivevo alla mamma mi
davano gioia perchè sapevo che ne avrebbero dato a chi le leggeva.
Un
giorno di fine estate ero andata al centro commerciale, avevo bisogno di allontanarmi dal mio fetido ambiente. Avevo
indossato jeans azzurri, camicetta di
cotone a pois, sembravo una qualunque ragazza cittadina.
Mi
ero seduta al bar e stavo gustando un gelato alla nocciola. Sul tavolino un
foglio di carta, volevo scrivere alla mamma.
Avevo
iniziato con:
“Carissima
mamma ho un giorno di vacanza e sono seduta al bar di un negozio enorme che in
Italia chiamano “Centro commerciale”. Sto “leccando” un buonissimo gelato, sono
sicura che piacerebbe ai bambini, ha un gusto pazzesco!”
Ero
così intenta da non accorgermi di un ragazzo che si era seduto accanto a me.
Era
carino, i capelli mossi e un po' lunghi sul collo. Aveva un sorriso smagliante
e sentii dirmi “Posso sedermi accanto? E ' occupata la sedia?”
Mi
spaventai, mi guardai attorno, temevo che il mio protettore mi potesse vedere e
far male a quel gentile ragazzo. I miei clienti erano quasi sempre persone
anziane, mai giovani come lui, con il volto onesto e lo sguardo aperto e
diretto.
Risposi
che era occupata, mi dispiaceva ma non poteva sedersi. Aspettai un po' e tornai a casa.
Avevo
avuto davvero paura, decisi che con me avrei portato sempre un bigliettino con
il numero di telefono del mio aguzzino, il nome di De Vitis e l'indirizzo della mia famiglia a Mogadiscio,
il numero di una cassetta di sicurezza in cui si trovavano i soldi che ero
riuscita con enorme sacrificio a risparmiare. Se mi fosse accaduto qualcosa
dovevano essere dati alla mia famiglia.
Accanto
ad ogni numero avrei anche scritto il ruolo avuto nella mia vita.
Mi
sentii più sicura, se mi avessero fatto del male, quel bigliettino sarebbe
stato utile.
Ricordo
il mio primo Natale in Italia, la gente era felice o almeno così appariva ai
miei occhi. Luci, colori, decorazioni
che a Mogadiscio non avevo mai visto. Le vetrine dei negozi abbellite e
piene di merce che abbagliavano gli
occhi e ti facevano respirare l' aria
della festa che si avvicinava.
E
io?
Io
continuavo a lavorare la notte sulla strada. Freddo, solitudine, miseria morale
a farmi da compagna, il cuore disperato, solo le mie lettere a dare conforto...
“Cara
mamma sapessi come è bello il Natale in Italia. Certo mi mancano le nostre
tradizioni ma qui tutto è spettacolare!
Alberi
altissimi pieni di luci, gente super impegnata a fare acquisti. La cosa che mi
piace di più è entrare nelle chiese
cristiane e osservare i presepi. Sono bellissimi. La povertà della Sacra Famiglia è simile alla nostra. Mamma con i soldi che
ti mando compra i regali ai bambini e magari la famosa bicicletta a Mambi. Ti
bacio, vi amo tutti”
Cosa
accadde l'ultimo giorno della mia vita.?
Ero
sempre più triste e inappetente, quella vita era inaccettabile, anche le
lettere che scrivevo a mamma, ad una lettura più attenta erano imbevute di tristezza.
Continuavo
a scrivere di una vita soddisfacente ma era anche evidente la nostalgia di casa
e della famiglia.
Anche
quella sera mi ero preparata per il “lurido lavoro”
Mi
ero truccata, acconciata con un abito corto e scosciato, avevo indossato le
“armi del mestiere”. Avevo soddisfatto un paio di clienti abituali, poi si era
avvicinata un' auto che non avevo mai visto prima, era sportiva, rossa, si era
fermata e una voce roca mi aveva chiesto quanto costavo.
Avevamo
patteggiato la cifra, ero salita in macchina che subito dopo era sgommata via.
Ero stata superficiale, avevo abbassato la guardia, non mi ero accorta che sul
sedile posteriore vi erano altri due uomini. Appena la macchina era ripartita
si erano palesati alle mie spalle e mi avevano immobilizzato.
Era
stato l'inizio della fine, non ero riuscita a fuggire. Mi legarono e mi condussero in aperta campagna. Abusarono e
abusarono di me tutti e tre. Dinanzi a tanta violenza smisi di lottare, tenni stretto tra le dita
il mio prezioso biglietto e mi lasciaia morire! Negli occhi la mia casa a
Mogadiscio, mia madre, i miei fratellini, nel cuore il loro amore da
contrappore al dolore del mio povero essere profanato.
...E'
l'alba, si sono accorti del mio corpo, è arrivata una macchina dei carabinieri
con i lampeggianti accesi. Un militare si è avvicinato, vedendomi ha sbarrato
gli occhi, un singhiozzo profondo gli è
sfuggito dalla gola, sembrava il verso di un animale ferito, ha stretto
i pugni, si è asciugato una lacrima, mi ha coperta col suo giubbotto, non
voleva sguardi lascivi sul mio corpo.
Forse a casa ha una figlia della mia stessa
età.
Non mi dimenticherà... mi darà giustizia!
C'
era una volta una ragazza giovane e bella, aveva tanti sogni, tante speranze...
ORA
NON C' E' PIU'!
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