mercoledì 23 settembre 2015

LA COSA GIUSTA




Una professione? Non lo sapevo, onestamente, ma ci “campavo”.
Leggevo fondi di caffè. Strano vero?  Me ne meravigliavo da sola ma mi credevano e così ne
avevo fatto un mestiere. Avevo iniziato da ragazzina scherzando, fingevo di leggere i fondi del
caffè per le amichette. Lo avevo visto in TV e allora perché non provare?
Ricordo la prima volta. Ero in cucina, mia mamma aveva appena finito di bere la” solita
 tazzina di caffè “.
“Aiuta la digestione!” amava dire e sul fondo era rimasto quel miscuglio intenso . Lo avevo roteato lentamente, a ogni movimento  quella miscela assumeva una forma strana…un po’ ci vedevo un cane, un  sussulto e tutto cambiava, ecco apparire un anello poi…una spiaggia…
Avevo chiamato Vincenzina, la cuginetta di dodici anni …
“ Vincenzì vieni che ti leggo il futuro!”
Le avevo dato in mano la tazzina e poi…”Vincenzì soffia e poi falla roteare nella mano. Pensa intensamente qualcosa  ed io ti dirò cosa ti succederà!”
Mia cugina che subiva da sempre il mio carisma, aveva ubbidito.
Si era seduta accanto, presa la tazzina, l’aveva stretta tra le mani, l’aveva come cullata, tipico di chi compie un rito poi me l’aveva restituita.
Tutta compenetrata nel compito, avevo fatto finta di osservare ciò che sul fondo era depositato e con voce suadente avevo detto “Vedo un treno, presto partirai!”
Vincenzì mi aveva guardato, poi, mimando con la mano che ero scema, era andata via.
In realtà, proprio la sera prima, avevo sentito dire a mia madre che presto zia Maria, ovvero la madre di Vincenzina, sarebbe partita per Torino. Il marito era senza lavoro e alla FIAT cercavano operai.  Insomma, l’inganno era compiuto.
Alcuni giorni dopo, una Vincenzina triste mi aveva avvicinato per dire “Hai indovinato, fra un mese parto per Torino. Sei brava Caterina!” Poi mi aveva stretto a sé e con gli occhi pieni di lacrime e se n’era andata.
La voce si era sparsa e i compagni di scuola mi chiedevano spessissimo di predire loro il futuro, osservando i fondi di caffè.
Ormai adulta mi ero “raffinata”, avevo un vero e proprio ufficetto, ricevevo per appuntamento, una solerte segretaria, Ciccia, regolava le visite. Ero “ CATERINA, SA PREVEDERE”, almeno così recitava l’insegna. Io molti dubbi sulla mia arte divinatoria l’avevo ma…dovevo pur vivere.
Non ero sposata e all’età di trentasei anni mi vedevano come una vecchia zitella. Quando passavo per la strada, le comari sedute sull’uscio sussurravano “Poveretta, così carina e così sola!”
Vivevo ancora a Montalbano, paese che mi aveva dato i natali. Vincenzì si era sposata e risiedeva ormai stabilmente a Torino. Era davvero cambiata, si era come “migliorata”, più trend, signorile, eppure quando d’estate tornava, mi chiedeva sempre di leggerle il fondo della tazzina di caffè, memore di un’arte divinatoria che, così credeva, le aveva rivelato il futuro.
“Caterina, oggi hai appuntamento con Don Fefè, esattamente alle 15,30, poi alle 16,00 con Pisciotta, sì il camionista, alle 16,30 con l’infermiere Giovanni e alle 17,00 coll’appuntato Cineri”.
Mi distrasse dai pensieri la segretaria.
“Grazie Ciccia, prepara la stanza, accendi lo stereo, mettilo piano, no Jovannotti o Tiziano Ferro, ti prego, poi ai visitatori viene voglia di cantare, Allevi è meglio e piano ti raccomando. Proprio pianissimo, che mi stordisci la clientela. Accendi la lampada laterale, chiudi le imposte e poi ti raccomando i bastoncini d’incenso. Pochi, non troppi, altrimenti lacrimano gli occhi. Ah dimenticavo, metti sul fornello la caffettiera da sei. Il caffè bello forte e la zuccheriera sul tavolino d’angolo con tazzine e cucchiaini! Sbrigati!”
Così dicendo ero andata nella mia stanza a prepararmi. Dovevo indossare l’abito giusto...
Nero, lungo, scollato (oggi la clientela era maschile, quindi si poteva fare), scarpe d’argento. Trucco marcato per occhi e labbra. e poi giù a studiare le notizie riguardanti i clienti che molto presto avrebbero bussato al mio ufficio...
Era compito di Ciccia, recepire più informazioni possibili.
Lei andava al mercato a recuperarle. Una fonte inesauribile era la macellaia, sapeva tutto, secondo me prima ancora che gli eventi accadessero. Prendeva nota con una memoria di ferro, poi riferiva.
Quindi il primo cliente sarebbe stato Don Fefè, da sempre innamorato di me. Me ne ero accorta fin da subito. Veniva almeno tre volte a settimana... A forza di bere caffè aveva un colorito sul paonazzo, segno di pressione arteriosa alle stelle e probabile prossimo ictus.
Arrivava tutto azzimato, lo precedeva una nuvola di profumo, non proprio francese, quasi neppure si sedeva, cominciava baciandomi la mano e tenendosela stretta fra le dita come volesse staccarmela e portarsela dietro come reliquia. Onestamente le labbra erano sempre umidicce e un certo schifo mi coglieva ma, cosa non da poco, era cliente fidato e sollecito. Si accomodava, ma solo quando ero riuscita a liberare la mia mano dalle sue grinfie. Invariabilmente, con occhio languido, iniziava con “Caterì, quando troverò l’amore vero? Quando finalmente mi dirai  di sì? Leggi, ti prego, la fine di questa mia ricerca!” E si avvicinava sempre più “Don Fefè dovete bere il caffè” e gli mettevo la tazzina in mano, così da doversi scostare dal mio viso.
Onestamente una moglie l’aveva, anche se bruttarella (più larga che alta, in pratica un arancino con i piedi) ma era ricca assai e lui l’aveva impalmata per questo.
Ogni volta rispondevo “Don Fefè l’amore l’avete già trovato, dovete solo riscoprirlo. Vedete il fondo della tazzina? E’ un cuore un po’ nascosto!” In realtà lui non ci vedeva niente ma, con occhi amorevoli, assentiva sempre, pagava e se ne andava.
Pisciotta, invece, era un mio amico d’infanzia, aveva qualche problema sul lavoro e nella vita privata, si ostinava a venire regolarmente affermando che gli portavo fortuna. E che potevo fare? Dirgli di no?!
L’infermiere Giovanni era un caso a parte. Tutto era nato quando , durante una mia seduta, gli dissi che nel fondo della tazzina leggevo il numero tre. Lui l’aveva giocato al Lotto, primo numero sulla ruota di Palermo e aveva vinto un gruzzoletto. Beh, ormai aveva speso tutto, in concreto anche la camicia, forse avevo qualche colpa , ma non aveva smesso di frequentarmi sperando in un nuovo colpo di fortuna. L’ultimo della giornata sarebbe stato l’appuntato Cineri. Questo era un problema, aveva promesso di denunciarmi se non avessi visto “la cosa giusta”. Ora questa “cosa giusta” non sapevo neppure cosa o quale fosse. Quando arrivava, sempre in divisa, forse per incutermi paura, queste erano le rituali parole:
“Caterì allora, ci vedi nel fondo della tazzina…”la cosa giusta?” Ed io ad annaspare, a inventarmi storie su storie. Lui ascoltava e poi col capo oscillante “Nonsi hai sbagliato ancora. Attenta Caterì che finisci male!” E se ne andava, un vero e proprio incubo.
Avevo mandato Ciccia, ormai una specie di Mata Hari , alla ricerca d’informazioni sull’ appuntato ma, niente da fare. Vita di specchiata onestà e noia! Scapolo, buona famiglia, amava il lavoro indefesso….
Ormai tutto era pronto, la caffettiera spandeva il fragrante profumo nella stanza.
Erano già le 15,30, da un momento all’altro sarebbe arrivato Don Fefè.
Seduta sulla sedia, mi guardavo intorno con occhio critico. In fondo la mia vita lavorativa era tutto un inganno. O forse no, io consolavo, davo speranza, aiutavo… Era quasi una terapia, incoraggiavo chi era disperato, infondevo coraggio, magari non ero proprio così meschina come sembravo ad alcuni…
Il solito scampanellio, era Don Fefè, aveva un modo strano di suonare: due colpetti brevi e uno lungo. Sembrava quasi un segnale, un giorno o l’altro glielo avrei detto di non venire più, non era giusto illuderlo.
“Ciccia, vai ad aprire!” Dissi.
“Si accomodi , oh signora c’è anche lei!” Terminò urlando la segretaria, per farmi capire che era la coppia a farmi visita e quindi dovevo cercare di chiudere un po’ la scollatura.
(Come? Anche lei, Don Fefè e l’arancino? Volevo dire Donna Maria.E che vogliono ora? )Pensai. Feci buon viso a cattiva sorte e li attesi nel mio studio, ma solo dopo aver preso uno spillo e “accorciata” l’ apertura sul seno.
Ciccia li fece accomodare, chiudendosi la porta alle spalle.
“Buongiorno Caterì!” disse un serioso Don Fefè senza baciamano e ratto della medesima.
 “Buongiorno a voi!” risposi sulle mie .
Donna Maria si accomodò proprio in” punta alla sedia”, segno di nervosismo e guardandomi dritta negli occhi “So che mio marito viene spesso a farsi leggere i fondi di caffè. Oggi lo farete con me!” Proferì stringendo a fessura gli occhi. Lei che li aveva già piccini, scomparvero tra le rughe d’espressione.
“Come volete Donna Maria! Ecco bevete questa tazzina di caffè, prima metteteci lo zucchero, quanto ne volete. Lasciatene solo un pochino sul fondo della tazzina!”
Così dicendo gliela porsi. La guardai attentamente, era sicuramente arrabbiata ma soprattutto disperata. In me vedeva una rivale. Dovevo tranquillizzarla, anche a costo di perdere un cliente abituale. Non ero una “rovina famiglie…”
“Ecco Caterina, ora leggete pure!” mi disse restituendo la tazzina con sgarbo, versando alcune gocce sul tavolino .
La presi, la feci roteare e apparentemente mi estraniai dal contesto. In realtà cercavo di pensare a cosa dire.
“Dunque Donna Maria, guardate attentamente, sul fondo c’è una casa (ma quale casa avevo cercato in tutti i modi di trasformare quel miscuglio in qualcosa di meno informe, ma…)
“Io non ci vedo niente, se non una macchia “
“Guardate bene, non siate nervosa…”e intanto davo impercettibili bottarelle alla tazzina,.
“Mi volete prendere in giro, questo lo potete fare al “babbasuni” che ho vicino.”
Mi disse dando uno scappellotto al poveretto, come fosse stato un bambino.
E l’infelice Don Fefè si faceva sempre più piccolo, se avesse potuto, sarebbe scomparso in un amen.
“Donna Maria guardate…(quando lei si era rivolta al marito, avevo messo l’indice nella tazzina disegnando un tetto,) ecco guardi… è la casa. Lei è fortunata ha un tetto, un cuore da condividere, niente vi dividerà….sì, ci sono dei punti oscuri, quasi delle nuvole, ma con la pazienza risolverete tutto. Il caffè parla chiaro…l’amore di un tempo tornerà, dovete riabituarvi, stare vicini, dialogare, condividere spazi, magari un viaggio…” e continuavo a parlare di un amore che rinasceva e Donna Maria a mano a mano si addolciva sempre più, abbandonando quell’aria truce, mentre Don Fefè riacquistava colorito.
Parlai per circa un quarto d’ora , mostrando sempre i fondi di caffè. Avevo spolverato tutte le mie conoscenze de “La posta del cuore” di una rivista di gossip che da sempre leggevo. Quando vidi Donna Maria rasserenata, decisi di chiudere la seduta.
“Donna Maria, come vedete, il caffè parla chiaro. Non mente mai.”E mi lasciai andare spossata sullo schienale.
“Grazie Caterina, mi avete dato speranza. Pensavo di aver perso mio marito per colpa vostra. Quanto vi devo?”
“Don Fefè lo sa, fate pagare lui” Risposi decisa.
Si alzarono dalle sedie molto più sollevati, Donna Maria in un impeto di gratitudine mi abbracciò. Non nascondo che mi commossi.  Li salutai, consapevole che Don Fefè non sarebbe più tornato, ma non me ne dispiacqui, forse avevo ricostruito una famiglia.
“Cicciaaa!” chiamai “I signori hanno finito, accompagnali!”
Finalmente mi rilassai, avevo riavvicinato i due coniugi, mi sentii bene.
 “ Ciccia, è arrivato Pisciotta?”
“No , appena viene lo faccio entrare”
 Con Pisciotta ci conoscevamo fin dalle elementari, figlio di camionista, una volta adulto, iniziò a lavorare col padre. Si era sposato con una ragazza dell’est, bellissima! A Montalbano tutti gli uomini gliela invidiavano, lei però  mal si adattava alla vita di un piccolo paese di montagna ed era andata via, portandosi dietro il figlioletto di cinque anni che il povero papà vedeva raramente.
Non ho mai capito perché venisse a chiedere la lettura dei fondi di caffè, probabilmente troppo solo, bisognoso di ascolto e di conforto, ma io…che potevo fare se non accoglierlo?
Il suono del campanello ne annunciò la visita.
Ciccia lo fece entrare nello studio.
“Ciao Caterì , ho bisogno di te!” Esordì senza neppure sedersi.
“Prendi fiato, accomodati e dimmi”
“Oggi ti voglio confidare una notizia bellissima. Sono innamorato!”
“Di una straniera?” Non mi trattenni  dal chiedergli.
“Caterì non interrompermi, ascolta e poi leggi i fondi del caffè.
Dunque ho conosciuto Lucia è…unica! Mi fa stare bene è una ragazza madre di Messina.
Lavora nel bar della piazzuola autostradale di Calatabiano. Sai, mi fermo spesso a bere un buon caffè da lei.  Abbiamo fatto amicizia. No, non è bella come “l’altra” ma è diversa, è buona e sincera.
Siamo anche usciti insieme per una pizza. Ho conosciuto il suo bambino, mi ricorda il mio.
E’ stata onesta, mi ha detto tutto sulla sua storia, del padre del bambino, non mi ha nascosto nulla. Abbiamo in comune il dolore, forse ora potremo costruire qualcosa insieme. Dai dammi il caffè e poi leggilo…” concluse con occhi lucenti.
Lo accontentai…avrei potuto già dirgli tutto, di aprirsi a quest’amore con fiducia, perché quando si ama nulla va perduto, ma il potere della predizione soggioga più della verità.
“Nel fondo della tazzina vedo solo affetto, amore, una nuova vita. Vai tranquillo. Ama!”
Mi alzai e lo abbracciai, pur sapendo che non avrebbe avuto più bisogno di me .
“Grazie Caterì, pago a Ciccia?”
“No, oggi no, è il mio regalo per te!” Gli dissi commossa accompagnandolo alla porta.
(Che giornata… due clienti fissi persi e, forse sono stupida, sono contenta per loro) Pensai
Mi alzai, mi sgranchii le gambe e mi avvicinai alla finestra, tra le fessure delle imposte vidi,
appoggiato all’albero della Villa Comunale, l’appuntato Cineri. Lo sguardo rivolto proprio verso di me, alzò il dito a mo’ di ammonizione,  come  dicesse “ ricorda …la cosa giusta”. Mi colse un capogiro. Mi allontanai infastidita.
Suonarono…. Era l’infermiere Giovanni.
Lo feci sedere, mi sembrò più malconcio del solito, lo sguardo vacuo, la barba lunga, i pantaloni spiegazzati, il colorito da avvinazzato.
“Giovanni che hai? Stai male?”
“Più che male, non ce la faccio più. Gioco tutto il mio stipendio. Non ho più un euro, solo i soldi per pagarti. Leggimi il numero della fortuna. Dammi il caffè e facciamo in fretta!”
Mi fece  paura…
“Giovanni io il caffè te lo do, ma non leggo niente. Ti sei rovinato la vita per inseguire una pseudo fortuna. Lo capisci che il caffè non centra per nulla? Quel giorno ho barato, maledetta me. Mi hai creduto e hai continuato a scommettere, mettendo in gioco la tua vita. Basta, finiscila, fatti curare. Non ti voglio più vedere. Guarda come sei ridotto. Hai perso tutto, anche la dignità. Sul lavoro sei disorientato, l’ infermiere che tutti cercavano per preparazione, per umanità, non esiste più, svanito dietro le scommesse. Ora sei un rottame.” Finii piangendo e urlando.
“Non hai colpa, ciò che sono l’ho voluto io. Caterì tranquilla, cambio, si voglio cambiare. Questa non è vita!”Scoppiò in un pianto dirotto.
Si alzò barcollando e, chiudendosi piano la porta alle spalle, andò via.
Mi guardai attorno, con occhi nuovi, come se avessi squarciato”il velo di Maya”.
(Cos’è questa finzione che rende gli altri schiavi? Continuare a simulare mi fa male.
Tra poco arriverà l’appuntato. Devo trovare “la cosa giusta) pensai.
Mi alzai, andai  in bagno a rinfrescarmi, tolsi l’assurdo abito funereo,  mi pulii il viso dal trucco esagerato. Indossai il vestito di cotone a fiori, sciolsi i capelli. Scalza,  tornai nel mio ufficio, chiusi  lo stereo,  spensi i bastoncini d’incenso, aprii la finestra  facendo entrare il sole.
Il pensiero  di quello che avrei potuto fare della mia vita, se non avessi scelto quest’assurdo raggiro, non mi abbandonò. Correre dietro alle illusioni di fortuna, di predizione , consapevole invece, che il destino di ognuno di noi ci appartiene, non mi diede tregua.
Una scampanellata  leggera …. l’appuntato. Ciccia lo fece entrare nel mio ufficio.
“Buongiorno Caterì, niente abito di scena? E la musica, l’incenso? Che ti succede? Sono un cliente , no?”
“Sì certo, accomodati. Ecco la tazzina, bevi, sai come si fa .” Dissi stancamente.
Mi guardò sorpreso, bevve lentamente il caffè e poi me la restituì.
La strinsi tra le mani, senza guardare il contenuto.
Lo fissai negli occhi, non mi ero mai accorta che fossero verdi, con lunghe ciglia scure, quasi femminili.
Iniziai a parlare “Vedo una donna, ancora giovane, che per tanto tempo ha cercato la “cosa giusta”. Ora la conosce. Chiuderà l’ufficio, si dedicherà ad altro. Magari utilizzerà il diploma  e cercherà un lavoro vero. E’ una donna nuova che crede nella realtà e ha abbandonato  un mondo falso dove, chi è disperato,  è disposto a credere in tutto, anche a un fondo di caffè mal interpretato.”
Alzai lo sguardo, lui mi sorrise, mi prese dalle mani quell’inutile e vuota tazzina, posandola sul tavolino…
“Finalmente Caterina, hai trovato “la cosa giusta”. Se mi vuoi, quando vorrai, io ci sarò . Decidi tu, come , quando ,dove. Lo farai perché ci crederai. Ciao Caterina.” Mi diede un lieve bacio sulla bocca e se ne andò. Mi accorsi, che per la prima volta, aveva pronunciato il mio nome per intero, come se fosse una mia rinascita.


Sono passati tanti anni, Montalbano, il mio paesello è sempre uguale, le donne sull’uscio continuano a “cuttigghiari” e recitare rosari. Don Fefè  sta ancora con Donna Maria, vivono la loro terza stagione di vita, con consapevolezza e affetto. Pisciotta lavora in “Continente”,come ancora dicono gli anziani, in poche parole al nord. Si è sposato con Lucia e hanno una famiglia numerosa infatti, frutto del loro amore, altri tre bimbi. Ogni tanto torna in paese e quando m’incontra  mi dice “Me lo offri un caffè e poi…lo leggi?” Mi abbraccia e ridendo va via.
Giovanni l’infermiere ha cambiato vita. Dopo un sofferto periodo di riabilitazione è ritornato a essere la brava e competente persona che era.
L’appuntato non c’è più,  adesso è un brigadiere felicemente sposato con me.
Questa la mia storia.
 Ho trovato “la cosa giusta”,  soprattutto ho fatto “LA COSA GIUSTA”.
                                                                 FINE
                                          



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